Il Poema pedagogico è innanzitutto un grande racconto, che appassiona chi lo legge. Ed è uno dei pochi racconti di grande impianto che mette, in modo esplicito, il compito e l’arte dell’educare a fondamento del paesaggio umano e delle trame narrative. Questa sua natura ne fa la vera fortuna. Infatti il Poema di Makarenko, al di là delle sorti che ha avuto, nel bene e nel male, presso le accademie pedagogiche, è stato e resta un libro generativo di molte altre storie. Qui racconterò la mia. Perché, in qualche modo, questo libro è stato per me un “romanzo di iniziazione”.
Avevo diciannove anni, l’anno dopo il liceo. Avevo appena ottenuto da privatista la licenza magistrale. Perché sapevo che quel titolo mi abilitava al concorso per diventare maestro. Un burbero e arguto professore della commissione alla fine dell’esame mi disse con tono perentorio: «Vuoi fare il maestro ? Allora devi leggere il Poema pedagogico. Lo devi leggere». I libri s’incontrano a volte così, quasi per caso o per destino. Lessi il Poema pedagogico in Svizzera durante quella estate. Facevo il garzone in un elegante negozio del centro di Ginevra. Vendevo borse, portafogli, cinture. La sera prendevo il tram che portava verso il confine francese e tornavo in una casetta avuta in prestito per tre mesi da un amico. Era piccola, con il tetto basso e spiovente, coi pavimenti tavolati di legno. E leggevo il Poema pedagogico. Mentre leggevo mi sentivo parte del racconto. Quasi che quella casetta prestata fosse un’isba ucraina e fuori vi fosse la grande pianura. Le immagini dei luoghi narrati riempiono la testa e danno senso ai libri. Di più quando si è ragazzi. «Le serate estive erano meravigliose… Il cielo si stendeva ampio, vivo e limpido, il bosco taceva nel tramonto, i profili dei girasoli si raccoglievano ai margini degli orti a riposare dopo la calura… »3.
Annotavo le pagine del Poema con la matita. Ho riguardato quelle annotazioni dopo trentacinque anni. Le ho letteralmente riscoperte. Certo, erano ingenue; e, tuttavia erano motivate dal voler davvero apprendere a “fare il maestro”. Mi ha colpito, a distanza di tempo, quanto fosse stata meticolosa quella mia lettura: ogni cosa segnata la avevo intesa come vitalmente importante per il mio futuro mestiere, come se la dovessi tenere in mente per sempre. Quasi un apprendistato. E oggi, rileggendo quelle mie note, ho innanzitutto pensato, ancora una volta, che la bellezza e la forza dei ragazzi – di tutti i ragazzi e anche di se stesso da ragazzo – sta proprio nel prendere un compito sul serio. Perché – anche oggi – non è affatto vero che i ragazzi “sono poco capaci di serietà”, come spesso, molto ingiustamente, si ripete. In realtà si dice questo di loro per tenerli al margine del mondo del quale si dovranno impadronire e occupare al nostro posto. E ho, poi, pensato che vi è una corrispondenza potente tra il prendersi sul serio dei ragazzi dinanzi alla vita adulta alla quale si stanno affacciando e il prendere sul serio quel passaggio della vita giovanile da parte di chi educa. “Prendere sul serio”: dare pieno credito agli intendimenti e agli atti di chi cresce e cerca di “diventare grande”. Questo, in fondo, è il fulcro su cui poggia la funzione educativa. Ed è lo stesso sul quale si fonda tutto l’intreccio narrativo, pagina dopo pagina, del Poema pedagogico. Per questo la lettura del Poema resta un autentico dono per chiunque voglia imparare ad educare.
Va detto: il mio scrivere da ragazzo a margine delle pagine del Poema pedagogico era anche un esercizio di adesione e molte delle annotazioni erano entusiaste. Ero un giovane comunista. E benché non amassi affatto l’ortodossia – tanto che disprezzavo il “Gran Partito” e ritenevo l’URSS una potenza ormai nemica di ogni rivoluzione – pure il capitolo del Poema sul Komsomol mi riscaldava il cuore. E di certo non davo importanza, nel leggere il Poema, ai continui rimandi alla Čeka né notavo l’adulazione verso il suo capo, Felix Edmundovič Dzeržinskij4 – che diede il nome alla seconda colonia guidata da Makarenko, un eroico bolscevico morto d’infarto prematuramente mentre accusava Trotskij di alto tradimento e non prima di essere stato il fondatore del sistema del terrore. Né mi colpiva l’astio che le pagine proprio di quel capitolo, che narra vicende del 1923, emanano contro i kulaki, considerati una categoria nemica e che di lì a tre anni furono l’oggetto, appunto, dell’“eliminazione in quanto classe” voluta da Stalin e furono perciò deportati e sterminati a centinaia di migliaia. Ero un giovane comunista. Così il capitolo sul Komsomol mi spingeva a annotare che «sì, la pedagogia è cosa importante ma c’è un’appartenenza a quella parte del mondo che aspira alla giustizia che è la cosa decisiva». Di quel mio entusiasmo per la possibilità di un mondo fatto di “liberi ed uguali” non so vergognarmi. Ma mi vergogno della mia giovanile rimozione della tragedia rappresentata dal regime del terrore – che pure sta sull’orizzonte del Poema. Un regime che avviò la costruzione dell’immane sistema concentrazionario sovietico, fondato sul lavoro schiavistico e che ha portato alla morte milioni di innocenti. Non era ignoranza la mia. Certo, non avevo letto la mole di documentazione oggi disponibile a riguardo e non avevo ancora pianto leggendo i Racconti della Kolyma5. Ma proprio in quegli anni mio padre mi aveva regalato Buio a mezzogiorno6 e Reparto C7. E casa nostra era frequentata da Gustav Herling, dei cui figli ero amico di infanzia e il cui libro Un mondo a parte8 avevo letto in quarto ginnasio. Sapevo quel che si doveva sapere.
Mi sono presentato al concorso magistrale del 1975. Era prevista, per la prova orale, la “preparazione” di un autore. Vale a dire si doveva studiare un pedagogista. Volevo “portare al concorso” Makarenko. Lo volevo con tutta l’anima. A tal fine avevo letto anche Bandiere sulle torri, vari articoli qui e lì trovati e – ricordo – il secondo volume del testo di Manacorda9dedicato alle scuole in URSS e anche un vecchio numero di «Riforma della scuola» dedicato alla pedagogia sovietica10. Prima della prova orale andai a consigliarmi con quel professore arguto. Lo andai a cercare all’Istituto magistrale dove mi aveva detto che insegnava. Lo trovai fuori dalla scuola, al bar. È strano come si ricordano certe cose quando queste sono fondative di quel che hai in mente di fare nella vita. Mi guardò severamente e scandì le parole:
«Tu non t’azzardare a portare Makarenko alla prova orale. Non si porta un comunista al concorso. Se proprio ami quelle parti del nostro bel mondo, allora porta Tolstoj. Tolstoj e tutto quel che riguarda Jasnaja Poljana. Ecco cosa devi fare. Se vuoi vincere il concorso. Perciò non t’azzardare !». Mi dispiacqui molto. Ma io volevo vincerlo il concorso. E quel mese di giugno tradii Anton Semënovič. Ascoltai quel mio burbero e amorevole orientatore – di cui neanche ricordo il nome – e portai Tolstoj alla prova orale del concorso. Durante il “colloquio” mi soffermai sulla scuola di Jasnaja Poljana11 e sulla sua ispirazione a Rousseau. E parlai dei Quattro libri di lettura12 e non della Colonia Gor’kij come avrei voluto.
Portai Tolstoj al concorso dopo aver letto Makarenko e neanche ero consapevole dei molti e ricchi fili che legavano e opponevano tra loro la tradizione nata con Tolstoj e Makarenko13. Allora non comprendevo quel che oggi so vedere tra le righe del Poema, cose relative al rapporto complesso tra Makarenko e l’utopia di una scuola liberatrice14 incarnata dalla tradizione tolstojana, tra il bolscevismo e le aspirazioni delle correnti culturali libertarie che anticiparono la rivoluzione. Ma soprattutto oggi vedo quanto la polarizzazione tra la libertà del singolo bambino o adolescente e la regolazione della stessa avesse a che fare con tutto questo. E vedo, al contempo, quanto l’intera tessitura del Poema pedagogico anticipasse temi e nodi ricorrenti in tutta la seconda metà del secolo scorso non solo della pedagogia ma della psicologia e delle teorie sullo sviluppo umano, nodi e temi che arrivano fino a noi15.
A vent’anni mi ero semplicemente trovato, così, tra Tolstoj e Makarenko, “come un asinello in mezzo ai suoni”. Eppure vinsi il concorso e entrai di ruolo in una classe elementare tre mesi dopo. E non feci male il maestro neanche il primo anno. Perché, poi, fare scuola è fare scuola. E, anche grazie al Poema, io mi dedicai proprio a quel fare.
Di Makarenko non mi sono più occupato. Solo, quattro o cinque anni dopo il concorso comprai le Memorie16, allora uscite e che, in verità, memorie non erano affatto bensì il frutto di interviste svolte dal Makarenko Referat di Marburg al fratello di Anton Semonovic, l’esule anti-sovietico Vitalij Makarenko. Ricordo che la lettura di costui mi aveva infastidito. Forse perché Vitalij era stato una guardia bianca e io comunque volevo difendere dentro di me la bontà della Rivoluzione d’Ottobre. O perché dipingeva Makarenko da ragazzo come un povero miope pateticamente impacciato e questo mi offendeva. O, forse, perché Vitalij aveva voluto bene al fratello Anton Semonovic ma lo aveva tradito, come avevo fatto io al concorso magistrale.
Non sono mai stato in Russia ma essa mi segue con magica persistenza. E sono soprattutto le letture che mi hanno “nutrito di Russia”. Così, una volta ero in vacanza con mio padre e stavo leggendo I demoni. Gli chiesi: «Papà, hai mai letto I demoni di Dostoevskij»17. Mio padre non si distrasse dal suo solitario e mentre continuava a maneggiare le carte: «Non certo io – mi rispose – ma un ragazzo di tanti anni fa che ha il mio stesso nome e corrisponde ai miei dati anagrafici». Queste parole fulminanti di mio padre mi sono rivenute prepotentemente alla mente quando, sollecitato da Nicola Siciliani de Cumis, ho riletto, in questa splendida nuova versione, il Poema pedagogico. È davvero un’altro – e non sono più l’io di allora – la persona che ha riletto questo libro.
Vedo altre cose. Ho già detto di alcune ricorrenze del Poema che segnalano, con la bellezza del racconto e l’acume dell’impietosa auto-riflessione, temi di grandissima attualità, riguardanti l’inestricabile contraddizione tra la crescita di tutti e l’emancipazione di ognuno. Ma vedo oggi, in primo luogo, quanto sia attuale e presente l’oggetto stesso del racconto, la ragione per la quale Makarenko lavorò e scrisse. Solo a voler guardare il nostro mondo così com’è, infatti, è del tutto evidente che la materia viva, il primo contenuto del Poema ci riguarda ancora. Il che fare, il come poter, concretamente, affrontare la questione dei ragazzi più esclusi dalle opportunità della vita. Che siano i ragazzi privi di dimora e senza guida né accompagnamento adulto. O i ragazzi precocemente al lavoro o senza istruzione né formazione. O i ragazzi che lungo la loro via hanno incontrato tanta sfortuna da avere imboccato strade crudeli.
Sì, sono passati ottanta anni dai giorni descritti nel Poema pedagogico. E abbiamo lasciato alle spalle – ben oltre la rivoluzione e la guerra civile – le grandi persecuzioni e gli stermini del secolo passato, la Seconda Guerra Mondiale, i decenni della confrontazione tra i blocchi e il lungo tempo delle ricostruzioni e della immane crescita nello sviluppo delle scienze, delle tecnologie e delle forze produttive, della ricchezza e del benessere, il consolidarsi dello stato sociale ben oltre i confini dei paesi più ricchi, la solenne affermazione dei diritti dei bambini a livello planetario, stabiliti dalla Convenzione di New York18. Eppure la questione a cui si dedicò Makarenko resta ancora la grande questione educativa del nostro tempo. A Nord e a Sud del mondo, ben al di là dei confini della sua Russia e fin nel cuore della civilissima Europa e del nostro Paese.
Quando sul finire del 1921 il giovane potere sovietico decise di espandere scuola e formazione a tutti i ragazzi di quell’immenso territorio conquistando a quella causa – insieme a Makarenko – migliaia di insegnati e giovani docenti che uscivano dalle scuole di pedagogia, si calcolavano in 8 milioni i besprizorniki19, i ragazzini vaganti tra “tutte le Russie”. Essi giravano in bande sopravvivendo come potevano, senza tutela, appunto, né guida alcuna, commettendo anche delitti. Nel 1999, secondo le stime delle Nazioni Unite, i bambini che giravano profughi nel mondo erano almeno 50 milioni di cui 10 milioni gravemente traumatizzati psicologicamente per perdita violenta di genitori, violenze e atrocità. Dopo altri 7 anni, nel 2006, erano ancora circa 40 milioni20. E la recente crisi economica ha arrestato la tendenza alla diminuzione. Ma questi sono solo i bambini e ragazzi oggi in fuga dai conflitti armati, in tutto simili a quei besprizorniki che raggiunsero la colonia Gor’kij in seguito alle vicende della guerra civile in Russia negli anni Venti del secolo scorso. In aggiunta a questi ve ne sono un numero imprecisato ma enorme – ben oltre 100 milioni ! – che, in ogni continente, fuggono la fame e le mille vessazioni della miseria. A volte insieme a familiari o membri della propria comunità. A volte da soli, con compagni di viaggio e di avventura trovati lungo la via. È la nuova condizione di “non tutelati” che, concentrata tra Asia e Africa, è però diffusa ovunque ci sia povertà. E anche nella ricca Europa, in condizione generalmente di pace e di notevole protezione sociale, esistono i non tutelati che vagano. Il “Gruppo di esperti sui minori erranti”21, presso il Consiglio dell’Europa, ha informalmente valutato – benché non vi sia certezza dei numeri – che sono circa 1 milione i bambini, gli adolescenti e i giovanissimi adulti che, per le più diverse ragioni e nei differenti modi, vivono vagando, in condizioni di mancanza di sostegno e guida adulta, dall’Atlantico agli Urali. E in Italia i “minori stranieri non accompagnati” arrivano ogni anno a migliaia22 e qui vivono come possono, privi di veri diritti, per periodi più o meno lunghi o ripartono e ritornano.
Anche se i numeri continuano ad essere di difficile stima, è certo, dunque, che milioni di besprizorniki contemporanei attraversano sotto i nostri occhi distratti il mondo globalizzato. Salvo i crudi documenti delle agenzie internazionali, quasi nessuno ne parla o ne scrive23. Ma proprio come viene spiegato nel Poema pedagogico – con una maestria, un rigore e soprattutto un insuperato rispetto per gli accadimenti della vita che colpiscono i più deboli – questi milioni di ragazzi, ovunque si trovino, pur confusi, oppressi e portatori di sofferenze, cercano nuova vita. Oggi come allora. E, parimenti, cercano – in modi espliciti o nascosti – tutela, opportunità e nuova vita, ovunque nel mondo, gli oltre 200 milioni di bambini completamente analfabeti, 38 milioni solo nell’Africa sub sahariana24. E vogliono una vita nuova anche gli 860 milioni di giovani adulti che sono analfabeti perché non sono andati mai a scuola da bambini. E cercano una via di uscita, anche quando non sanno dirlo né chiederlo, quelle centinaia di migliaia25 di ragazzini italiani – di cui a lungo mi sono occupato negli ultimi venti anni – che sono esclusi dalle opportunità della effettiva cittadinanza e dunque della vita perché non hanno ultimato né la scuola né una formazione professionale vera. E così pure avviene per i 317 milioni di bambini e ragazzi di questo nostro mondo che, tra i 5 e i 17 anni, sono “economicamente attivi”, ossia producono, con il lavoro, beni e servizi almeno durante una parte del loro tempo o gli altri 218 milioni che sono veri e propri salariati a tempo pieno o, ancora e ben più crudelmente, gli ulteriori 126 milioni di bambini e ragazzi che sono oppressi dalle forme più estreme di sfruttamento, fino alla tratta e al lavoro schiavistico26.
Questi milioni di bambini e ragazzi – una parte cospicua del nostro comune futuro – hanno disperato bisogno proprio di quelle cose di cui tanto ancora ci dice il Poema pedagogico. Hanno bisogno di luoghi “salvi”, nutriti di studio e – perché no ? – anche di lavoro purché sia protetto e sia occasione di apprendimento. Luoghi dove, ogni giorno, persone competenti si misurino non già con le “condizioni dei ragazzi”, secondo categorie fissate a priori ma con la vita di chi, giovane in difficoltà, ti sta davanti, hic et nunc. Luoghi, dunque, che – similmente a tante cose narrate in questo libro – sappiano occuparsi dell’attività e della vita quotidiana di chi non ha avuto le giuste occasioni: capire davvero quel che si studia, imparare a fare cose mai fatte, ottenere riconoscimento per quel che si sa già fare, produrre, mangiare, pulire, parlare, giocare, commerciare, gestire in proprio e governare… Luoghi nei quali davvero si può riimparare per potersi, così, salvare da un destino segnato. La ragione per questa attualissima necessità di “luoghi dedicati” è semplice. Risiede nel fatto che le giovani persone escluse che abitano ancora a milioni questo nostro mondo, oggi come allora, sono giovanissimi di età ma già pienamente “dentro al mondo”. Pertanto non possono certo ammettere o sopportare di stare in un “limbo scolastico” lontano dalla vita vera o che la sospende. Né possono aderire a una promessa di riscatto se non toccano ogni giorno con mano che lì sono curati i loro bisogni materiali e che vi è effettiva protezione dalle traversie e dai pericoli che essi hanno dolorosamente conosciuto. Insomma, gli odierni besprizorniki hanno ancor oggi bisogno di educatori che sappiano essere effettivamente guide ma anche costruttori di comunità, di ritualità, di occasioni identitarie. Infatti non c’è solo bisogno di pane, medicine e lezioni ma, appunto di tutela e, al contempo, di nuova vita quotidiana e di riparazione interna, per quanto è possibile e ricostruzione simbolica. Ciò implica che questi “luoghi salvi” siano in grado di fornire strutture e organizzazione e mezzi. E implica anche siano capaci di aiutare a lenire le pene ed elaborare i lutti, di presidiare i limiti senza i quali è inevitabile che si ricada nella condizione di partenza e, contestualmente, di inventare ed offrire, ad ogni bambino e ragazzo, una grande molteplicità di opportunità. E qui sorge un interrogativo impietoso quanto necessario. Per dirla con Makarenko: «Dove la trovo gente idonea a questo maledetto affare?»27. In risposta a questa domanda l’esperienza, lungo i decenni, ci ha mostrato una via possibile: questi luoghi devono anche essere manutenuti da persone capaci di aiutare a interrogarsi sul procedere quotidiano ed incerto di ogni giornata.
Queste sono le cose incontrovertibilmente necessarie in risposta ai bisogni di chi è nato fuori dalle protezioni e ha fatto precoce e prolungata esperienza di frustrazione, esclusione, sofferenza, perdita. Chi ha fatto diretta esperienza di educazione con ragazzi “difficili”28riconoscerà, nel ritmo narrativo del Poema pedagogico, quel passo incalzante che scandisce il turbinio di azioni e pensieri che connotano questo tipo di lavoro educativo. È un passo che si sposta – senza soluzione di continuità – tra la presa in carico delle singole crisi, spesso drammatiche, al governo delle mille piccole necessità alla gestione delle faccende economiche ed amministrative ai temi organizzativi, ai compiti propriamente pedagogici ora legati ad attività di studio ora di lavoro ora creative. Chi ha fatto queste esperienze riconoscerà anche il ritmo emotivo del Poema che è continuamente sospeso tra la speranza, la testarda determinazione, l’affranta caduta, la resilienza quasi inspiegabile, la successiva regolazione del delirio di onnipotenza, la incerta ma più equilibrata ripresa…
A ben guardare, però, il Poema non è solo una “grande narrazione” dell’educazione nella sua versione estrema, eroica. In qualche modo travalica il campo di azione proprio di chi si occupa delle persone più escluse e più deboli. E investe tutto il mondo educativo. Infatti l’esperienza di Makarenko – così come ogni esperienza educativa “di frontiera” – avviene, sì, entro uno scenario pedagogico specifico. Ma riveste un carattere universale proprio in virtù della sua condizione estrema. Il contesto entro cui ha luogo questo tipo di azione pedagogica non consente, infatti, le fasulle soluzioni e le facili rassicurazioni date dagli assetti ripetitivi, standardizzati. Bisogna ogni volta provare che le cose funzionino. E non in astratto. Ma nel migliore modo possibile e entro le “condizioni date”. E non c’è maniera di rimandare o rimuovere questa procedura, questa necessità o urgenza metodologica. Semplicemente perché il contesto non lo permette.
Ecco: proprio questa condizione pone costantemente a chi opera il tema della ricerca, della sperimentazione e dunque del come si agisce e si sceglie per il meglio nel mezzo del fare. O, per dirla con Makarenko: «La formazione del tipo di comportamento necessario è soprattutto una questione di esperienza, di abitudine e di lungo esercizio in ciò di cui abbiamo bisogno».29
Questo è un tema pedagogico che ha avuto una risposta decisiva, di grande empirismo. È un tema deweyano30.
Che ha a che fare con le azioni e, insieme, con il senso profondo, eticamente fondato, che le azioni assumono. Forse tutto il Poema di Makarenko, in fondo, ci parla di questo. E cioè dei nostri compiti nel mondo. O, come, alla fine del Poema pedagogico, dice Makarenko al professor Čajkin: «Io proprio non vi capisco, secondo voi, per esempio, l’iniziativa è una specie di ispirazione… Ma io cerco di farvi capire che l’iniziativa si manifesta solo in presenza di un compito da svolgere, di una responsabilità inerente al suo svolgimento»31.
Napoli, luglio 2009
Marco Rossi Doria
«Papè Satàn, papè Satàn aleppe!»
cominciò Pluto con la voce chioccia;
e quel savio gentil, che tutto seppe;
disse per confortarmi: «Non ti noccia
la tua paura, ché, poder ch’egli abbia,
non ti torrà lo scender questa roccia».
Dante, Inferno, VII
– Chchirgarši – maja gekaščichi! Razrovou, rakrošu!
Karabanov, nero e lucido con i capelli acconciati
a mo’ di mostruosa cresta sul capo,
ad un tratto fa balenare i suoi enormi occhi
e grida digrignando i denti:
– Caramba! Garchša! Garchša! A. S. Makarenko, Poema pedagogico, III, 11