Una questione su cui credo opportuno soffermarmi in queste poche pagine riguarda la rilevanza che la nuova edizione italiana del Poema pedagogico, curata da Nicola Siciliani de Cumis, assume sul piano della specifica didattica universitaria, ma credo, per la metodologia che la sostiene, della didattica in generale. Mi riferisco alla pratica e alla tecnica del «collettivo», parola chiave del Poema, che rende la nuova versione in lingua italiana del testo di Anton Semënovič Makarenko il felice esito non solo dell’impegno di uno dei maggiori studiosi dello scrittore ed educatore ucraino, ma il risultato del coinvolgimento e della partecipazione degli stessi studenti della Prima Cattedra di Pedagogia generale dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza”. Per più di quindici anni coinvolti nella lettura, traduzione, contestualizzazione e interpretazione del Poema pedagogico; oggetto non solo dei corsi della Cattedra ma anche dei laboratori “autogestiti”, dei seminari, quindi di elaborati scritti d’esame, di tesine e tesi di laurea, che hanno trovato collocazione in riviste, in opere miscellanee, in monografie e antologie.
Un enorme lavoro, un complesso intreccio di didattica e ricerca è quello che Siciliani offre al lettore, con l’avvertenza di non considerarlo concluso; la puntualità con cui sottolinea i limiti della traduzione, la sollecitazione a ulteriori controlli e confronti fanno dell’opera un work in progress a cui gli studenti per primi, compatibilmente con i loro interessi e le loro possibilità, sono chiamati a collaborare.
Ecco che nel quadro di una didattica della ricerca le scritture scientifiche «“bambine”», i saggetti critici minimi, appena iniziali, possono diventare e sono diventati, in molti casi, preludio ad altri e più compiuti esiti scientifici. Testi che affrontano il rapporto tra l’individuale e il collettivo, il tema del «lavoro dell’uomo nuovo», la felicità e la prospettiva, l’eroe, il gioco, la pedagogia familiare, la «pedagogia dell’antipedagogia», il sogno e la meraviglia, il valore della diversità, «Makarenko oltre Makarenko», i suoni, i movimenti e le visioni; come documenta il Makarenko “didattico” 2002-2009. Tra pedagogia e antipedagogia (a cura di Siciliani de Cumis, con la collaborazione di Chiara Coppeto, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2009).
Una didattica universitaria che non trascura il già appreso, ma muove dalle istanze culturali del potenziale ricercatore; una pratica educativa che considera la precedenza ideale dell’apprendimento sull’insegnamento. In questo caso di quanto acquisito nel corso dell’esperienza universitaria ma anche nell’insieme delle relazioni sociali, quale presupposto di un percorso formativo e autoformativo orientato ad una qualche progettualità autogratificante.
L’intento è di realizzare, per quanto possibile, una forma di insegnamento che mantenga un carattere ludiforme, gratificante, motivante, ma collocato nella prospettiva di ulteriori sviluppi scientifici e professionali, e proprio a tale fine si richiede l’assunzione delle norme fondamentali che regolano tanto l’indagine quanto la scrittura scientifica.
Anche in questo modo l’Università può diventare spazio per la ricerca e la didattica insieme, ma non con un’utenza interna funzionalmente ristretta e con poche possibilità di scambio con l’esterno; al contrario il futuro dell’istituzione si gioca sulla capacità di sapersi riposizionare in un contesto che vede l’affermarsi di una domanda di istruzione e formazione superiore a livello di massa e che richiede il superamento da parte dell’università di ogni autoreferenzialità, assumendo, tra l’altro, il lavoro collegiale degli stessi docenti quale condizione del successo didattico ed educativo.
Quello che complessivamente e in sintesi si profila, didatticamente, è un procedere da una fase in cui «si tende a disciplinare […], a ottenere una certa specie di “conformismo” […] dinamico», a una «scuola creativa»; un termine che indica, per usare le parole di Gramsci, una fase e un metodo di ricerca e di conoscenza, e non un «programma» predeterminato con l’obbligo dell’originalità e dell’innovazione a tutti i costi. Indica che l’apprendimento avviene specialmente per uno sforzo spontaneo e autonomo del discente, e in cui il maestro esercita solo una funzione di guida amichevole come avviene o dovrebbe avvenire nell’Università 1.
L’Università come spazio di libera ricerca, a cui gli studenti sono chiamati a cooperare in ragione di un modello pedagogico, per così dire, della convertibilità della didattica nella ricerca, e viceversa. Cooperatori «nostri in questo lavoro», affermava Antonio Labriola nel discorso del 14 novembre 1896, dove avanza una chiara proposta di politica culturale, articolata in precisi itinerari di ricerca, in concreti propositi educativi e, perfino, nell’obiettivo didattico di far cogliere a colleghi e studenti il modo che gli è proprio di intendere l’insegnamento e l’apprendimento universitario.
Ma L’Università e la libertà della scienza fu anche l’occasione per ribadire quelle che si vanno delineando come le specificità del lavoro scientifico, «che non è un semplice attributo dei singoli […] ma è quello che si fa, si produce e si sviluppa per entro alla cooperazione di tanti discutitori, e critici, ed emuli, e concorrenti. Anche questo lavoro è, come tutti gli altri, fondato sulla secolare accumulazione di energie, e su l’esercizio della cooperazione sociale».
Ecco allora il diritto degli studenti di «discutere […] la scienza» che viene rivelata loro. «Il discutere è condizione dell’apprendere; e la critica è la condizione del progresso. Ma per discutere occorre già aver imparato. La scienza è lavoro e il lavoro non è improvvisazione».
Su questa base – afferma infine Labriola – saremo, per fermo, più orgogliosi, se, associando voi all’opera nostra la vostra intelligente docilità, ci permetterete di chiamarvi cooperatori nostri in questo lavoro, che è il più gradito e nobile che capiti ad un uomo di esercitare ordinatamente, anzi commilitoni sotto l’insegna di quella libera e spregiudicata ricerca, che per noi e per voi tutti è diritto e dovere ad un tempo. D’altra parte che cos’è la didattica se non «quell’attività che generi altra attività», il suggerire più che dire, l’aver suscitato idee piuttosto che inculcato pensieri è ciò che caratterizza la pedagogia e la didattica dell’autore dei Saggi e che segna la continuità tra il teorico del comunismo critico e il Labriola pre-marxista, che nel testo Dell’insegnamento della storia indica quale fine della «didattica» quello, «per mezzo dell’istruzione», di «suscitare l’interesse immediato, multiforme e concentrato per le cose del mondo interiore ed esteriore». Nel Cassinate come in Antonio Gramsci è rintracciabile il fondamento di quella concezione dell’università, che Siciliani si impegna a tradurre nel presente, come tempo di riflessione, di approfondimento, di ricerca, di conquista di una cultura storico-critica, che il Labriola in realtà contraddice riducendo l’educazione ad «accomodazione sociale», ad adeguamento degli uomini alla date condizioni di esistenza. Quando invece si tratta «di garantire problematicamente una riqualificazione dell’umano, del sociale e del politico-quotidiano»; quando, riprendendo le parole di Dewey, una «“comprensione intelligente”» del presente quanto «“della storia passata è in certa misura una leva per muovere il presente in direzione di un certo genere di futuro”».
Un insegnamento e apprendimento quindi che non cede alle facili semplificazioni manualistiche e che si impegna nel proporre l’assunzione a punto di forza dell’università di massa il lavoro collegiale, quale presupposto della capacità di rispondere ai bisogni dell’utenza tutta. Senza per questo abdicare alla funzione istituzionale che è propria dell’Università: luogo tanto di ricerca quanto di insegnamento, momenti non separati ma posti in un rapporto di interazione, il tutto facendo leva sul diretto coinvolgimento degli studenti nelle attività di indagine.
Corsi, laboratori, elaborati scritti, individuali e collettivi, schede, recensioni, primi saggi, produzioni tutte sottoposte a verifiche, aggiustamenti e approfondimenti, imbastiscono una rete didattica e indagativa che rendono possibile incrementare la produttività sociale del lavoro nell’università “di massa”, rappresentato in primo luogo dal suo esito finale: la tesi di laurea, quale risultato provvisorio ma allo stesso tempo presupposto per ulteriori sviluppi.
Ecco quindi gli studenti chiamati a misurarsi con una pedagogia sui generis, o meglio con un’antipedagogia che si definisce, provvisoriamente, nel corso della stessa narrazione del Poema pedagogico; rappresentazione, tra letteratura e pedagogia, di una ricerca formativa e autoformativa in costruzione, orientata dalla prospettiva di un nuovo sentire, un nuovo senso comune conforme a quella che avrebbe dovuto essere la nuova base sociale sovietica.
Nel leggere, rileggere, discutere, schedare, recensire, nell’elaborare testi e giudizi sui capitoli dell’opera e sull’opera stessa dell’educatore e scrittore ucraino, gli studenti si fanno protagonisti dell’interlocuzione con un classico a partire dal presente vissuto e allo stesso tempo accedono al Laboratorio Makarenko, dove convergono con le loro le competenze, saperi e interessi. Su questa base sono sollecitati ad individuare e selezionare i problemi oggetto di ricerca, a formulare ipotesi e argomentazioni sostenute filologicamente, a produrre un qualche giudizio storico.
Un percorso che, se chiama in causa il collettivo dei docenti-ricercatori, rende concreta per gli studenti quella funzione di «cooperatori nostri», riprendendo ancora Labriola, «anzi commilitoni sotto l’insegna» della «libera e spregiudicata ricerca» 2.
Università di Roma “La Sapienza”, giugno 2009
Vincenzo Orsomarso